Giorgio Da Gai – Historia Limes Club Pordenone

La Resistenza unì l’Italia e fu un fenomeno di “massa”?

L’antifascismo è sinonimo di “democrazia”?

Nel 45 l’Italia fu “liberata” o occupata?

La strumentalizzazione dell’antifascismo.

Il 25 aprile si celebra la festa della Liberazione.

In tale data il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) proclamò l’insurrezione nazionale contro le truppe di occupazione tedesche e i loro alleati fascisti.

Nel giro di pochi giorni le forze partigiane presero il controllo dell’Italia centro-settentrionale.

Miti e strumentalizzazioni ci impediscono di comprendere cosa realmente fu la Resistenza e ancora dividono il Paese tra fascisti e antifascisti.

Vediamo di analizzarli singolarmente.

La Resistenza è celebrata come fatto costitutivo della nostra unità nazionale.

Un movimento che unì tutti gli italiani nella lotta contro l’invasore tedesco.

Balle!  La Resistenza fu un fenomeno minoritario che non unì, ma divise il nostro Paese scatenando una sanguinosa guerra civile.

La Resistenza coinvolse la minoranza del popolo italiano: gli abitanti dell’Italia meridionale non vi parteciparono perché il Mezzogiorno fu occupato dagli Alleati; nel resto dell’Italia, chi aderì alla Resistenza spesso lo fece per sfuggire alla coscrizione fascista e alla deportazione tedesca, non per fede politica; molti furono gli “attendisti” che rimasero a guardare senza schierarsi da una parte o dall’altra, attendendo la fine della guerra.

Se confrontiamo il numero di aderenti alla Resistenza con il totale della popolazione italiana, ci rendiamo conto del carattere minoritario della Resistenza.

Ferruccio Parri figura storica dell’antifascismo italiano parla di circa 70 mila combattenti e di altrettanti fiancheggiatori, un esercito composto di 130 – 150 mila unità; su una popolazione che nel 1946 contava 45 milioni e 540 mila abitanti.

Il numero salì a 250 – 300 mila negli ultimi giorni di guerra; quando la parte più vile e opportunista degli “attendisti” saltò sul carro dei vincitori (1).

La vittoria ha tanti padri, la sconfitta è orfana.

Il regime fascista ebbe il consenso degli italiani e il sostegno della monarchia. Un consenso e un sostegno che perse solo nel 1943, quando gli italiani stanchi della guerra e terrorizzati dai bombardamenti, abbandonarono Benito Mussolini e il suo regime; ne seguirà una guerra civile, che terminerà nel 1945 a Piazzale Loreto con i corpi oltraggiati del Duce e della Petacci, macabri trofei di una guerra dove pietà l’è morta (canzone del partigiano Nuto Revelli).

Non poteva finire diversamente: il fascismo aveva coinvolto milioni d’italiani in un conflitto che poteva essere evitato e che degenerò in una guerra civile combattuta senza esclusione di colpi e con gratuita ferocia.

Alla fine a scorrere non fu solo il sangue dei “vinti” o quello dei “vincitori”; a scorrere fu il sangue di “tutti” gli italiani.

Gli antifascisti “vinsero” la guerra e scrissero i libri di storia, negando pietà e rispetto a chi la perse.

Esclusi i criminali e gli opportunisti, merita rispetto chi combatté per un ideale, anche se con il senno del poi lo giudichiamo sbagliato: fedeltà al fascismo nel quale milioni d’italiani furono educati a credere; fedeltà nel comunismo, nel suo ideale di giustizia e di riscatto sociale; fedeltà nella democrazia e nella libertà patrimonio del pensiero cattolico e liberale. Amore per un’Italia che lo straniero aveva invaso infierendo sulla popolazione civile con inaudita ferocia: le efferate rappresaglie tedesche, i criminali bombardamenti degli Alleati, gli stupri di massa e gli omicidi compiuti in Ciociaria dai goumiers nordafricani (le truppe coloniali francesi).

Antifascismo non significa democrazia.

Non tutti i partigiani si batterono per fare dell’Italia una nazione democratica. La democrazia era l’ideale delle formazioni partigiane d’ispirazione cattolica, liberale e azionista.

La Resistenza comunista aveva come modello l’Unione Sovietica, un regime dispotico e sanguinario quanto quello nazista; comunisti furono i partigiani che scrissero le pagine più ignobili della Resistenza.

I partigiani comunisti, per sentimento di vendetta o per odio sociale e ideologico, uccisero chi professava una fede diversa dalla loro o ne ostacolavano l’azione politica.

Le esecuzioni furono decise in modo arbitrario, senza processo o a guerra finita; in alcuni casi le vittime furono seviziate (i crimini della banda di “Falco” nella Cartiera “Burgo” a Mignagola di Carbonera – Tv).

Gli storici contemporanei ritengono che tra fascisti, presunti simpatizzanti e “nemici di classe” le vittime siano state 10 – 12.000 (2).

In alcuni casi si trattò di vere e proprie stragi: il “Triangolo della morte” (Bologna, Reggio Emilia e Ferrara), la strage di Oderzo 30 aprile – 15 maggio 1945, la strage di Schio (Vi) luglio 1945, l’eccidio di Codevigo (Pd) 28 aprile 1945, l’eccidio di Valdobbiadene (Tv) 3 – 5 maggio 1945 (3).

Ne ho citato solo alcune per ragioni di spazio.

La violenza dei partigiani “rossi” colpì anche le fazioni non comuniste della Resistenza (cattolici e liberali): nell’eccidio della baita di Porzus furono trucidati dai G.A.P. (Gruppi Azione Patriottica) i partigiani della Divisione Osoppo.

Questi partigiani “bianchi” furono uccisi perché non vollero sottomettersi agli ordini di Tito e avvallarne le mire espansionistiche sulla Venezia Giulia.

Al partigiano e comunista Tito dobbiamo la tragedia delle foibe (1943-1945) e l’esodo giuliano-dalmato (1945-1954) una “pulizia etnica” degna della peggiore tradizione balcanica: 11 mila morti, dai 250 ai 300 mila profughi.

Italiani uccisi e perseguitati per la loro nazionalità e non perché fascisti (a Trieste tra le vittime dei titini vi furono anche membri del C.N.L.).

Dopo l’armistizio del 1943, i fascisti avevano abbandonato l’Istria e la Dalmazia, al loro posto erano subentrati i tedeschi; gli italiani rimasti erano civili, pochi erano coinvolti con il regime fascista.

Le stragi dei partigiani comunisti si consumarono tra aprile e maggio 1945, solo nel Triangolo della morte proseguirono fino al 1949. Le stragi cessarono con l’arrivo degli Alleati e il disarmo delle formazioni partigiane.

Anche dopo la guerra, il Partito Comunista rimase fedele all’Unione Sovietica e al suo regime.

Nel 1956 quando i carri sovietici soffocarono la rivolta di Budapest, il PCI di Togliatti approvò l’intervento sovietico, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da buon comunista dichiarò: «In Ungheria l’URSS porta la pace».

L’Unità quotidiano del PCI definì gli insorti “teppisti” (4).

La svolta “democratica” del PCI prese forma nel 1968, in occasione della Primavera di Praga; quando Luigi Longo, segretario del partito espresse “il grave dissenso” sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia.

Con l’elezione di Enrico Berlinguer a segretario del PCI (17 marzo 1972) iniziava la stagione dell’ “eurocomunismo” e si consumava lo strappo definitivo tra Mosca e il Partito Comunista Italiano (5).

Nel dopoguerra le forze antifasciste rinunciarono all’epurazione dei fascisti dalle istituzioni pubbliche, il fine era pacificare il Paese, chiudere un periodo tra i più tristi e dolorosi della nostra storia. Roma gennaio 1946, i dati forniti, dalle autorità italiane agli Alleati parlano chiaro: su 394.401 dipendenti dello Stato passibili di epurazione 1580 furono licenziati, 531 mandati in pensione anticipata, 8803 ricevettero solo una nota di rimprovero (la censura scritta). (6)

Esemplare fu il caso dei Questori e dei Prefetti di polizia che rimasero al loro posto, pur avendo collaborato attivamente con il regime fascista.

Gli Alleati furono d’accordo: il fascismo non era più un pericolo e la presenza dei fascisti nelle istituzioni serviva a contrastare la minaccia del partito comunista, quinta colonna dell’Unione Sovietica.

A legittimare la mancata epurazione ci pensò l’amnistia firmata da Togliatti Ministro di Grazia e Giustizia del I Governo Parri (22 giugno 1946).

L’amnistia comprendeva reati comuni, militari e politici compiuti dopo l’armistizio del 43. Uscirono dal carcere dopo un breve periodo di detenzione: il maresciallo Rodolfo Graziani ministro della difesa durante la RSI, Renato Ricci comandante della Guardia Nazionale Repubblicana, Renzo Montagnana capo della polizia e molti altri.

I criminali di ambo le parti la fecero franca, poterono rifarsi una vita in Italia o all’estero.

La data del 25 aprile non è solo una data di “liberazione” ma anche di “occupazione”.

In Italia la liberazione dall’occupante tedesco segnò l’inizio dell’occupazione americana. La stessa cosa avvenne nell’Europa dell’Orientale, la fine dell’occupazione tedesca coincise con l’inizio di quella sovietica.

Iniziava il periodo della “Guerra Fredda”.

Nei Paesi sottoposti all’influenza sovietica, s’instaurarono regimi dispotici con sistemi economici inefficienti; l’Italia, grazie anche alla presenza americana poté beneficiare di ampi spazi di libertà e di benessere materiale.

L’occupazione americana fu il male minore e fu una condizione inevitabile: avevamo perso la guerra e sull’Europa incombeva la minaccia comunista.

Oggi la situazione internazionale è cambiata; ma non la posizione dell’Italia e la mentalità del suo popolo.

L’Italia che festeggia la “liberazione” rimane una nazione a sovranità limitata, culturalmente colonizzata.

L’Italia è una nazione a sovranità limitata sottoposta ai diktat americani e a quelli della Troika (FMI, C.E. B.C.E.): i primi influenzano la nostra politica estera, ci coinvolgono in conflitti che giovano agli interessi di altre nazioni (l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la nuova “Guerra Fredda” con Mosca); i secondi influenzano la nostra politica interna, ci impongono misure economiche che impoveriscono il nostro Paese (tagli alla spesa pubblica, precarizzazione del lavoro, vincoli di bilancio).

L’Italia è una nazione culturalmente colonizzata lo dimostra l’uso smodato degli anglicismi nel linguaggio quotidiano e il sentimento di servile riconoscenza che riserviamo all’occupante americano, questo comportamento è tipico dei popoli privi di memoria storica e di dignità.

I servi sciocchi sostituiscono i termini della nostra lingua con gli anglicismi (audience, austerity, authority, location, governance) non hanno capito che la colonizzazione linguistica e quella politica sono facce diverse della stessa medaglia.

Ogni potenza dominante usa la lingua per comunicare e per trasmettere i propri valori, così fecero l’Impero Romano e le nazioni colonialiste europee; così fanno gli Stati Uniti, gli attuali “padroni” del mondo.

Winston Churchill, il 6 settembre 1943 lo dichiarò esplicitamente: «Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni molto superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento.

Gli imperi del futuro sono quelli della mente». (7)

I servi sciocchi sono convinti che si debba eterna riconoscenza agli Stati Uniti. Nazione che ha liberato l’Italia dai tedeschi, che l’ha sostenuta economicamente negli anni della ricostruzione e che l’ha difesa dalla minaccia sovietica.

Questo è vero, però gli Stati Uniti non fecero tutto questo per spirito “umanitario”, ma per tutelare i loro interessi; inoltre, “gratitudine” non significa eterna sudditanza.

Gli Stati Uniti intervennero nelle due guerre mondiali per difendere i loro interessi geopolitici, non per portare la pace e la libertà nel mondo.

Impedire che in Europa nascesse una potenza globale capace di dominare l’Eurasia e quindi il mondo; una potenza capace di unire l’industria tedesca alle risorse dell’Europa Orientale.

Per impedire questo gli Stati Uniti combatterono due guerre mondiali e affrontarono la Russia nella Guerra Fredda.

Con la sconfitta della Germania e l’inclusione della stessa nell’Alleanza Atlantica; a minacciare gli interessi americani era l’unione Sovietica, nazione che aveva occupato l’Europa Orientale e aveva l’appoggio dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale.

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti George Marshall

Il Piano Marshall (1947-1951) non fu un atto di “generosità”.

Gli Stati Uniti agivano in funzione di precisi interessi politici: trasformare l’Europa in un futuro partner commerciale, contrastare l’avanzata dei partiti comunisti, contenere l’influenza dell’Unione Sovietica.

Per tale motivo misero a disposizione dei governi europei 13 miliardi di dollari, con tale somma permisero all’economia europea di rinascere e sollevarono dalla miseria milioni di europei con l’invio di beni di prima necessità (coperte, vestiario, medicinali, viveri, carbone).

Fu un affare per noi e fu un affare per loro.

Etichetta presente sulle confezioni degli aiuti

Oggi la situazione internazionale è cambiata, gli interessi del nostro Paese divergono da quelli americani (Libia, Siria, rapporti con la Russia) è giunto il momento di recidere i legami con un “alleato” diventato nel tempo “padrone”.

L’interesse nazionale deve guidare la nostra politica, non la fedeltà “atlantica” o “l’europeismo” a senso unico; concetti astratti che altre nazioni non rispettano (vedi la Francia) o usano a loro vantaggio (gli Stati Uniti).

A liberare l’Italia non furono i partigiani ma gli Alleati grazie alla superiorità militare.

La sconfitta delle Forze dell’Asse fu determinata dalla superiorità militare degli Alleati e dalla tenace resistenza dell’Unione Sovietica.

Quest’ultima fu la nazione che subì il maggior numero di perdite nell’ultimo conflitto mondiale: 23 milioni di morti, di cui 10 milioni e 400 mila soldati, 12 milioni e 600 mila civili.

Senza l’intervento degli angloamericani e delle loro “fortezze volanti” la Resistenza non avrebbe sconfitto i tedeschi e i loro alleati fascisti, la disparità di forze era troppo elevata. Diverso fu il caso della Jugoslava, unico in Europa, la Resistenza guidata Tito sconfisse i tedeschi e i loro alleati.

Nell’aprile del 1945, i partigiani presero il controllo del Paese senza incontrare una forte resistenza: i tedeschi erano in fuga incalzati dall’avanzata alleata; i repubblichini privi dell’appoggio tedesco si arresero o fuggirono, i pochi che si ostinarono a combattere furono uccisi.

Morirono con onore per una causa che oggi giudichiamo sbagliata.

A mente fredda e con il senno del poi è facile dare giudizi; e soprattutto scegliere la parte “giusta” quella che vince la guerra.

La Resistenza ridusse le perdite degli Alleati e indebolì le forze nazifasciste con efficaci azioni di guerriglia e di sostegno alle truppe alleate.

Il generale tedesco Ludwig Kubler, comandante del settore Adriatico, testimonia l’efficacia della guerriglia partigiana: «Tendono imboscate. Assaltano camion isolati e intere colonne di trasporti, fanno saltare con cariche esplosive le linee ferroviarie e i ponti, saccheggiano i trasporti di generi alimentari, mettono fuori uso le linee telegrafiche e telefoniche».

In soli due mesi, dal gennaio al febbraio 1944 ci saranno un migliaio di attentati contro le forze armate tedesche con 503 morti. (8)

< nella foto: I repubblichini di Salò >

La risposta tedesca e fascista sarà spietata a pagarne le spese non saranno solo i partigiani, ma anche la popolazione civile.

Dal luglio del 1943 all’aprile del 1945 le stragi tedesche fecero 9.500 vittime: donne, vecchi e bambini (9). Crimini che si sommano alla deportazione di 6806 ebrei italiani nei campi di sterminio nazisti, se ne salvarono solo 837 (10).

Crimini compiuti dai tedeschi spesso con la collaborazione delle autorità fasciste.

I tedeschi giustificheranno i loro crimini con il “diritto di rappresaglia”.

Quale “diritto” può giustificare l’uccisione deliberata di 130 bambini a Sant’Anna di Stazzema (12 agosto 1944)? Discorso analogo vale per la strage di Marzabotto (5 ottobre 1944) e per tutte le stragi compiute dai tedeschi in Italia.

I tedeschi e i repubblichini vanno condannati per i crimini compiuti sulla popolazione civile, o per atti di gratuita crudeltà verso i membri della Resistenza (l’uso sistemico della tortura) non per aver combattuto quello che era il loro nemico, com’è dovere di ogni soldato.

I partigiani comunisti vanno condannati: per aver eliminato i membri anticomunisti della Resistenza, assecondato le mire espansionistiche della Jugoslavia, ucciso e seviziato fascisti e tedeschi a guerra conclusa; non per la loro fede politica o per aver combattuto l’invasore tedesco e il regime fascista.

Gli atti di violenza contro la popolazione civile e la coscrizione forzata favorirono la Resistenza in termini di aderenti e di sostenitori.

Non a caso le moderne tecniche di controguerriglia prevedono che le forze regolari cerchino di conquistare il consenso della popolazione per combattere i ribelli.

Tale consenso non si ottiene con il terrore ma con il dialogo e il sostegno delle popolazioni coinvolte nel conflitto.

Tedeschi e fascisti pagarono per i loro crimini, gli Alleati no.

In Italia i bombardamenti Alleati fecero più vittime delle rappresaglie tedesche.

Boeing B-29s drop bombs over Rangoon, Burma. Nearest aircraft is B-29-25-BA (S/N 42-63529) of the 468th Bomb Group. (U.S. Air Force photo)

Dal 1942 al 1945 le vittime dei bombardamenti Alleati furono 80.000 – 100.000. A Treviso nel giorno del venerdì santo (7 aprile 1944) sotto le bombe dei “liberatori” perirono 1600 persone.

Una strategia applicata con maggiore vigore sulle città tedesche (Dresda, Amburgo, Lubecca) e su quelle giapponesi, su quest’ultime gli americani usarono l’arma nucleare (Hiroshima e Nagasaki agosto 1945).

La furia dei “liberatori” non risparmiò nemmeno i tesori artistici del nostro Paese, come l’Abbazia di Cassino (maggio 1944).

I bombardamenti Alleati che colpirono le città italiane e tedesche erano “strategici” e non “tattici”: azioni terroristiche destinate a minare il morale della popolazione e a distruggere le infrastrutture civili; non a colpire obiettivi militari.

Negli anni trenta questa strategia fu esposta alla Camera dei Comuni dal primo ministro inglese Stanley Baldwin: «Qualunque cosa si dica, i bombardieri passeranno sempre. L’unica difesa è l’offesa, il che significa che dovrete uccidere donne e bambini più velocemente del nemico, se vorrete salvarvi». (11)

Anche la Germania utilizzò i bombardamenti a fini strategici, a farne le spese furono soprattutto gli inglesi quando la Luftwaffe colpì le principali città del Regno Unito facendo oltre 40 mila vittime (1940 – 1941).

La sinistra “salottiera” strumentalizza l’antifascismo, agita lo spauracchio del pericolo fascista per mantenere il consenso e per reprimere il dissenso.

Reprimere il dissenso con norme liberticide che limitano la libertà di pensiero e di espressione (il reato di opinione e di negazionismo).

Mantenere il consenso, distraendo l’elettorato da quelli che sono i veri problemi del Paese: immigrazione, precariato, pressione fiscale, tagli dei servizi pubblici, difesa della sovranità e degli interessi nazionali.

La sinistra “salottiera” ci insegna a temere i “fascisti” di CasaPound e non le migliaia d’immigrati che delinquono impuniti nel nostro Paese.

La sinistra “salottiera” ci insegna che la democrazia è minacciata dall’avanzare dei “populismi” è non dai poteri sovranazionali.

La strumentalizzazione dell’antifascismo assume toni ridicoli la norma che vieta l’esposizione di simboli “fascisti”: non si superano le tragedie del passato rimuovendone le immagini; ma studiandone le cause e predisponendone i rimedi.

La strumentalizzazione dell’antifascismo assume toni violenti, lo squadrismo dei “centri sociali”: alla manifestazione “antifascista” di Piacenza (11 febbraio 2018) la feccia dei centri sociali aggredisce le forze dell’ordine e scatena la guerriglia nel centro della città; alla manifestazione di Macerata (18.2.2018) la stessa feccia oltraggia i martiri delle Foibe con striscioni che inneggiano a Tito e cantando: «che belle le foibe da Trieste in giù».

Il fascismo è morto nel 1945 la storia l’ha condannato all’oblio.

Oggi i partiti e i movimenti “neofascisti” rappresentano una parte politicamente insignificante del nostro sistema politico: folclore “nero” o becera tifoseria da stadio.

Quello che i mass media e i partiti “progressisti” definiscono “fascismo”, sono in realtà formazioni politiche di carattere identitario e populista che si fanno carico del malessere e della rabbia della gente.

Sentimenti e diritti che la sinistra “salottiera” ignora e disprezza con spocchiosa sufficienza.

La guerra è finita da oltre settant’anni, smettiamo di mitizzare la Resistenza, prendiamo a calci in “culo” i cialtroni che la strumentalizzano.

Rendiamo onore ai caduti di ambo le parti e alle tante vittime civili di una tragedia che non dobbiamo dimenticare.

Che riposino in pace.

NOTE

1) Edoardo Pittalis: Il sangue di tutti, 1943 -1945 in Triveneto, Biblioteca Il Gazzettino 2005, p. 229.

2) Santo Peli: La Resistenza in Italia, Torino, Einaudi 2004, p. 164.

3) Sui crimini della Resistenza:

– Gianpaolo Pansa: Il sangue dei vinti. Sperling & Kupfer Editori, 2003;

– Antonio Serena: I giorni di Caino, Panda, Padova, 1990.

4) Fernando Canizzaro: Quando Napolitano disse: “In Ungheria l’URSS porta la pace”, 30/10/2016. In: http://www.libereriflessioni.it/2016/10/30/quando-napolitano-disse-in-ungheria-lurss-porta-la-pace/#sthash.X6gXLj5H.dpbs

5) Giancarlo Bosetti: Le ambiguità del Pci. Quando mancò il coraggio di essere “eretici”, 3/4/2015. In: http://www.reset.it/dossier/primavera-di-praga-sinistra-italiana

6) Edoardo Pittalis Opera Citata, p. 228.

7) Claudio Mutti: La geopolitica delle lingue Editoriale di Eurasia “Rivista di studi Geopolitici” 05/10/2013.

8) Edoardo Pittalis Opera Citata, p. 85.

9) A.N.PI. di Lissone Stragi nazifasciste da luglio 1943 ad aprile 1945. In: http://anpi-lissone.over-blog.com/article-20499301.html

10) Fondazione CDEC: Statistica generale degli ebrei vittime della Shoah in Italia, 1943 – 1945. In: http://www.cdec.it/

11) Sui bombardamenti strategici:

– Emilio Bonaiti: Il bombardamento strategico. In http://www.sulleormedeinostripadri.it/it/documenti-storici/l-economia-prebellica-e-gli-eserciti-in-campo/approfondimenti-tematici/226-il-bombardamento-strategico.html

– Massimo Annati e Tullio Scovazzi: Diritto internazionale e bombardamenti aerei, Giuffrè Editore, Milano 2012

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